Sussurri e grida, di Ingmar Bergman

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A cura di Francesco Pozzo

Verrebbe da chiedersi: ma coloro che idolatrano la bieca pornografia del dolore che è Vortex di Gaspar Noé, o – peggio – il The Whale di Darren Aronofsky, avranno mai visto Sussurri e grida del maestro Ingmar Bergman? Un film che potrebbe aver girato Dio, se Dio esistesse o fosse esistito (o forse Dio era Ingmar Bergman, semplicemente: avrebbe molto più senso), oltre che la prova concreta e tangibile che ogni grande cineasta fa un unico film per tutta la vita con qualche sottile variazione sul tema: un concetto che allo svedese si applica millimetricamente: dal Posto delle fragole a questo, dal Flauto magico a Luci d’inverno, da Sinfonia d’autunno a Fanny & Alexander, il bisogno e il senso profondo dell’amore e dell’affetto umano, del calore e della vicinanza prima di ogni cosa e prima ancora di un dialogo con un dio assente ma opprimente, è sempre stato il suo comune denominatore: e questo, si badi bene (sembrerà paradossale, ma è così), è un film medicatore: distrugge, ma purifica.

Perché Sussurri e grida è sì, senza pensarci, la più fosca, violenta, virulenta, sferzante, scrupolosa, agghiacciante e nauseante rappresentazione dell’agonia, dello strazio divorante, del calvario fisico e della morte – e di come gli esseri umani si relazionino ad essa – mai messa in immagini (una roba che in confronto la truculenta Passione gibsoniana è cosa soft), legata a doppia mandata, com’è ovvio, al forse più angosciante, insostenibile e ottundente supplizio spirituale che è tratto preminente del pensiero filosofico e della filmografia bergmaniana: ma – ed è proprio questo, il punto – la sensazione di limpida pacatezza, di amore sussurrato, di fiducia nella vita e nel prossimo nostro (o, quantomeno, nei puri di spirito), di placida accettazione dell’ordine segreto e forse crudele delle cose che Bergman riesce cristallinamente, quasi magicamente, a restituirci, al di là di ogni atrocità e nonostante tutto l’orrore spietato e senza scampo della malattia e della muraglia nera che è il trapasso, dell’inferno che può essere lo stare al mondo e del male che possono infliggerci le persone che lo abitano, questo mondo assurdo, crudele e complicato (ed è tanto, spesso intollerabile: esattamente come il film), è forse il più grande miracolo mai compiuto da un cineasta e ci spingeremmo a dire un unicum nella storia del cinema (forse l’ di Fellini riesce in qualcosa di simile: ma lì non è tanto il dolore, quanto la bella confusione della vita): e crediamo che questo, più di ogni altra cosa, testimoni a fondo la grandezza vertiginosa e soffocante di questo imprescindibile capolavoro (per chi scrive fra i dieci più sublimi mai fatti), per il quale non esistono parole sufficientemente alte se non una: grazie.

“Thus the cries and whispers fall silent.”