Sono ormai lontani i tempi in cui l’autarchico Nanni Moretti dissertava con acume e sarcasmo sulla condizione del disilluso universo giovanile, sul vuoto intergenerazionale, sulla perdita di valori morali, sulle idiosincrasie contemporanee, sul pubblico televisivo, sul potere distorto dei media, sull’ipocrisia dilagante, sulle proprie nevrosi, sulla Sachertorte. Con al centro se stesso, sempre e comunque. Il “morettismo” più intransigente ha lasciato spazio, dagli anni 2000 in poi, a una visione cinematografica più distesa e riflessiva, ancora affilata come un rasoio eppure silente nell’insinuarsi sotto l’epidermide dello spettatore senza quello straordinario (ma oggi inevitabilmente desueto) piglio spocchioso di gioventù. La filmografia dello splendido sessantaduenne di Brunico assume sempre più i tratti di un quadro artistico in divenire, ineccepibile nel rendere la consapevolezza e la maturazione di un autore tra i più importanti del panorama cinematografico italiano di oggi.
Un “nuovo corso” che non impedisce a Moretti di racchiudere in ogni singola opera i propri precipui tratti distintivi, solamente levigati dallo scorrere del tempo. Ed ecco che Mia madre, in concorso alla 68esima edizione del Festival di Cannes, nell’essere un punto di arrivo che racchiude e completa un cinema sempre più orientato al rigore, alla riflessione sul dolore e l’inadeguatezza, alla paura di avere paura, non rinuncia ai consueti topoi morettiani (la famiglia borghese intrisa di cultura classica, la crisi d’identità, l’incomprensione, la crisi artistica, l’approccio ateo all’esistenza, la medicina, il ballo).
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