EISENSTEIN IN MESSICO di Peter Greenaway (2014)

eisenstein in messico

Nel 1931, il regista sovietico Sergei Eisenstein si recò in Messico per girare il suo nuovo film. Peter Greenaway decide di mettere in scena questa esperienza in Eisenstein in Messico, passato alla Berlinale 2015, con l’usuale stile colorato, dinamico e barocco interessandosi principalmente a rinchiudere il protagonista trattandolo come un animale in uno zoo. Greenaway infatti ingabbia Eisenstein in spazi geometricamente perfetti, circondato da mura che non gli lasciano scampo e da una macchina da presa incombente e minatoria (la carrellata quadrata, il momento più alto della pellicola, ne è la dimostrazione).

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Berlinale 2015: EISENSTEIN IN GUANAJUATO di Peter Greenaway e AFERIM! di Radu Jude

Eisenstein-in-GuanajuatoEISENSTEIN IN GUANAJUATO di Peter Greenaway (concorso)

Nel 1931, il regista sovietico Sergei Eisenstein si recò in Messico per girare il suo nuovo film. Peter Greenaway decide di mettere in scena questa esperienza con l’usuale stile colorato, dinamico e barocco interessandosi principalmente a rinchiudere il protagonista trattandolo come un animale in uno zoo. Greenaway infatti ingabbia Eisenstein in spazi geometricamente perfetti, circondato da mura che non gli lasciano scampo e da una macchina da presa incombente e minatoria (la carrellata quadrata, il momento più alto della pellicola, ne è la dimostrazione).

Il pubblico fa la parte dello spettatore, pronto a captare ogni minimo comportamento dell’esemplare sia nella sua vita sessuale (Greenaway non risparmia scene decisamente esplicite) che nei momenti più privati (come nella scena del vomito) quasi come se dovesse studiare la cavia da laboratorio. Tuttavia è proprio la componente dello studio (filologicamente parlando) una delle più gravi lacune del film in questione. Il regista inglese sembra non essere interessato al cineasta Eisenstein, trattandolo piuttosto come un Sergei qualunque. Eccetto la prima eccezionale sequenza d’apertura, il resto della pellicola non è incentrata sullo stile, sulle tematiche o sulla cultura che pervadono la filmografia del sovietico. Questa mancanza di approfondimento non deve essere vista necessariamente come un difetto del film, ma, quando la pellicola entra nella sua parte centrale, ecco che allora il tutto iniziano lentamente e inesorabilmente a cedere. Greenaway ha molta fantasia visiva e lo dimostra largamente, il tutto però sembra fine a se stesso, privo della materia prima che dovrebbe essere alla base del progetto. Perdendo il controllo sulla sostanza (attraverso riferimenti macabri eccessivi, rallenti ingiustificati, sequenze inutili mirate a creare una dicotomia tra buoni e cattivi piuttosto elementare e priva di senso in un’opera come questa), Eisestein in Guanajuato rischia dunque di rimane un film riuscito per metà, che farà sicuramente contenti i fedeli fans del regista, mentre lascerà indifferenti e paghi della loro avversione coloro che non hanno mai apprezzato il suo operato.

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GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY di Peter Greenaway (2012)

 Qualche anno fa Peter Greenaway sosteneva, con la sprezzante sicumera tipica del suo carattere, che il cinema fosse morto. Aggiungeva che la data del trapasso era da collocarsi in concomitanza con l’invenzione non del televisore ma del telecomando. In tempi più recenti questa granitica convinzione sembra essersi in lui ammorbidita, tanto che il suo prossimo film, atteso a Berlino, sarà la rilettura dell’opera di uno dei padri della settima arte come Sergej Ejzenstejn. Mai comunque l’eccentrico cineasta inglese ha smesso di ripensare il linguaggio del suo cinema, trasformandolo sempre più in un vero e proprio ipertesto crossmediale, densissimo di rimandi, suggestioni, link a innumerevoli (e i numeri in Greenaway non sono mai cosa secondaria) ambiti dello scibile umano.

Muovendosi in una sorta di zona franca tra sguardo d’autore, sperimentalismo e videoarte, Greenaway ha giocato con le forme della rappresentazione fin dagli esordi del suo cinema. Goltzius and the Pelican Company, uscito nel 2012 ma solo a inizio 2015, dopo un passaggio in alcuni teatri della penisola, distribuito nelle sale italiane, rinnova con inesausta vitalità questa tendenza. E ci invita a perderci in un altro puzzle-labirinto audiovisivo realizzato nello stile inconfondibile del suo autore, ispirato stavolta alla figura dell’incisore olandese del 1500 Hendrick Goltzius.

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