THE HOST di Andrew Niccol (2013)
“Nessun ospite mi aveva mai fatto sentire così in colpa per ciò che ero. Ma d’altronde, nessun altro ospite si era trattenuto per lamentarsi della situazione.”
Era inevitabile.
Dopo l’enorme, planetario successo della Twilight Saga (Twilight, New Moon, Eclipse, Breaking Dawn), un’altra opera della scrittrice statunitense Stephenie Meyer è stata adattata per lo schermo: trattasi di The Host, fedelissima trasposizione dall’omonimo romanzo datato 2008. E francamente non se ne sentiva il bisogno.
In un futuro prossimo venturo la Terra è stata colonizzata da una razza aliena, le “Anime”, il cui scopo primario è eliminare ogni tipo di violenza per far regnare pace e serenità sul pianeta rendendolo un posto migliore. Nobile intento, se non fosse per l’annientamento di migliaia di umani i cui corpi sono stati occupati dagli invasori: tra questi c’è Melanie Stryder (Saoirse Ronan), ribelle facente parte della resistenza insieme al fratello Jamie (Chandler Canterbury) e al fidanzato Jared (Max Irons). L’anima a lei assegnata, Viandante, ha il compito di sondare i ricordi dell’ospite per ottenere informazioni utili a catturare i sopravvissuti ma, ben presto, viene influenzata e plasmata da emozioni e pulsioni umane, schierandosi sul fronte opposto.
L’idea di base è interessante e poteva riservare sorprese positive; in realtà il risultato è un film imbarazzante e maldestro, dal ritmo catatonico, la cui visione si trasforma con il passare di interminabili minuti in agonia. Il problema principale, nel caso della Meyer (qui anche in veste di produttrice) è sempre lo stesso: sulla carta la storia scorre e funziona, ha tratti di originalità e spunti interessanti; la messa in scena dà invece luogo ad una serie di sequenze sconnesse e soporifere il cui impianto visivo è veicolato da immagini “cartolina” di rara piattezza. In questo senso risulta (eufemisticamente) inadatta anche, e soprattutto, la resa della duplicità della protagonista, unico corpo dilaniato da due entità contrapposte: la soluzione di far dialogare l’indomita umana, scintilla ancora ben presente nell’involucro corporeo a lei sottratto, e l’anima aliena sfocia nel ridicolo involontario (inconveniente prevedibile che poteva essere aggirato ben più coraggiosamente), effetto aumentato da uno script ridondante e patetico (“Ti amo per quanto mi è possibile amarti”; “sei l’essere più nobile e puro che abbia conosciuto”; “l’universo sarà un posto più buio senza di te”).
Cast improponibile e dilettantesco (la Ronan conferma le scarse doti recitative dimostrate in Amabili resti) che nemmeno la presenza di William Hurt riesce a riscattare.
“Voglio morire”, afferma la stremata Viandante nel prefinale.
Tentazione che sfiora anche il malcapitato spettatore.
Voto: 1/4