The Old Oak di Ken Loach, la recensione

Mirta Tealdi

T.J Ballantyne (Dave Turner) è il proprietario del The Old Oak, l’unico pub e unico punto di ritrovo degli abitanti di un piccolo paese del nord dell’Inghilterra (un tempo località mineraria). In paese serpeggia il malcontento da quando le autorità vi hanno spostato dei profughi siriani. Durante uno di questi arrivi, si è già riunita una piccola folla di persone che dimostrano con urla animate, anche T.J è presente e assiste alle incalzanti recriminazioni. Prima di scendere dal pulmino, una ragazza siriana fa delle foto e la persona fotografata, un tipo particolarmente aggressivo, le strappa di mano la macchina (per cancellare le immagini), che nel trambusto cade a terra e si rompe.

La macchina, come vedremo, ha una valenza molto importante: è un simbolo, un ricordo, ha valore di testimonianza, è il collegamento con la propria terra e il filo di dialogo con un possibile e nuovo altrove. Prima che i profughi entrino nell’appartamento a loro assegnato T. J raccoglie la macchina e la restituisce alla ragazza scusandosi. Questo episodio iniziale è l’occasione narrativa che fa sì che T.J e Yara (Ebla Mari) si avvicinino: che due mondi distanti abbiano una possibilità d’incontro; ma proprio per questo motivo T.J si trova, suo malgrado, coinvolto nelle rivendicazioni e recriminazioni dei suoi clienti e compaesani; in particolare un ristretto numero di irriducibili che non intendono accettare i nuovi arrivati, addossandogli le colpe, e le responsabilità della loro difficile situazione. E’ uno scontro tra un popolo straziato dalla guerra civile che deve crearsi un proprio posto all’interno della comunità che non li vuole e gli abitanti che, a loro volta, assediati dalle difficoltà economiche e mancanza di prospettive (da quando la miniera ha chiuso), sono i migliori candidati a veder crescere il proprio malcontento. In paese non manca però chi si dà da fare per i profughi, compreso T.J che mette a disposizione lo spazio sul retro del The Old Oak per creare occasione di condivisione e sostegno anche per i poveri della comunità. E’ questo che scatenerà, in un crescendo incandescente, la rabbia dei più assidui frequentatori del pub, infarciti di pregiudizi e intransigenza e capaci di azioni gravi e meschine.

The Old Oak (ma sarà proprio Ken Loach la vecchia quercia?), è l’ultima fatica dell’ultra ottuagenario e prolifico regista, da sempre impegnato a raccontare le vicende delle realtà più scomode e controverse del proletariato inglese e non solo; a testimoniare e gridare con forza contro i diritti calpestati e la miopia dei poteri forti. Una working-class, spesso vittima di circostanze socio economiche avverse, immersa in una sottocultura che ne mortifica le potenzialità, fragile e disincantata. Personaggi ai margini, vittime di sfruttamento o di azioni autolesioniste ma fatalmente inevitabili (My name is Joe) o di crisi economiche globali che accentuano precarietà e sfruttamento (Sorry We Missed You), o di sistemi burocratici e politiche sociali sorde e farraginose (I, Daniel Blake). Protagonisti che combattono, cadono, si rialzano, o che semplicemente devono accettare il proprio destino, ma senza mai arrendersi.

Questa volta (avvalendosi sempre della sceneggiatura del suo collaboratore Paul Laverty) allarga il suo sguardo allo scontro detonante tra due culture. Lo sguardo si apre sul razzismo, la diffidenza e la meschinità nelle giustificazioni di coloro che si oppongono con intransigenza alla presenza delle famiglie di rifugiati, si apre però anche ai tanti che sono disposti ad avvicinarsi a questa realtà o che si adoperano per aiutare in senso più ampio. Ne nasce un ritratto di una parte di collettività che si muove e modula i propri comportamenti in modo opposto e contrario al crescere dell’amicizia tra il vecchio e la ragazza che invece si rafforza nelle progressive e reciproche confidenze. Ci sono delle immagini molto emozionanti, una delle più inaspettate e commoventi è la sequenza in cui T.J., dopo aver seppellito la sua cagnolina e unica compagna, sbranata da un altro cane, si trova solo e sconsolato nella sua cucina, nelle mani il piccolo collare di Marra. Suonano alla porta e si trova davanti Yara e sua madre che gli hanno cucinato la cena. Apparecchiano e aspettano partecipi e in silenzio che mangi tutto, prima di andarsene. Un gesto consolatorio di accudimento attraverso il cibo che nutrendo il corpo scalda anche l’anima e che riappare in altri punti salienti del film. Un gesto di solidarietà tanto semplice quanto intimo e commovente reso dal grande mestiere di Loach un atto profondo e spontaneo.

Dalle sue stesse parole: “Un giorno dovremo essere così organizzati e determinati da fare in modo che la solidarietà possa porre fine alla sofferenza e alla necessità di ricorrere alle lotte. Abbiamo già aspettato troppo a lungo”.

La lezione che Loach ci restituisce film dopo film è che la dialettica tra opposti è, se non la soluzione, l’unica via percorribile. Uno sguardo, quello del grande regista, umanissimo e partecipe degli affanni dei suoi “eroi”, talvolta duro, spesso crudo ma mai disincantato.

Voto: 3/4